teoria polivagale

La teoria Polivagale: sistema simpatico e parasimpatico non più antagonisti ma semplicemente ben organizzati

Una delle convinzioni più diffuse su come il nostro sistema autonomo reagisca alle situazioni stressanti o di pericolo è quella del paradigma classico dove si sostiene la presenza di due sistemi antagonisti: il simpatico e il parasimpatico. Secondo tale paradigma il sistema simpatico è responsabile della nostra reattività (attacco/fuga) e dunque della nostra sopravvivenza in tutte le situazioni di pericolo, mentre il parasimpatico ha un ruolo protettivo di riduzione dell’arousal e recupero dell’equilibrio fisiologico.

Negli anni, diversi studi hanno messo in luce che il nostro modo di reagire a situazioni di pericolo sia più complesso e gerarchico. In questa direzione, nel 2014, Stephen Porges formula la Teoria Polivagale, che sottolinea una visione non antagonista ma gerarchica delle risposte del sistema simpatico e parasimpatico. Porges pone alla base della sua teoria l’evoluzione biologica del sistema nervoso (dal cervello rettiliano, che comprende il tronco encefalico, a quello del mammifero superiore costituito dalla neocorteccia). La compresenza di più strutture permette al sistema di autoregolazione la presenza di un repertorio di risposte più primitive di inibizione (il sistema rettiliano), poi in uno più affinato nel corso dell’evoluzione che considera il sistema di attacco-fuga e , infine, culmina in uno sofisticato di ingaggio sociale mediato dalle espressioni facciali e dalla vocalizzazione.

Il nome della teoria deriva dalla funzione centrale del nervo vago, caratterizzato da una famiglia di nervi che costituiscono il sistema parasimpatico: di età arcaica ritroviamo il fascio di nervi dorso-vagale che comprende fibre afferenti agli organi sottodiaframmatici (stomaco, intestino tenue, colon e vescica) che si attiva in condizioni di grave pericolo, creando uno stato di rallentamento che arriva fino all’immobilizzazione (la difesa dei rettili), e determina, quindi, uno stato di immobilità che non deriva da una condizione di sicurezza, bensì da estrema paura.


Nei mammiferi superiori questa condizione di immobilizzazione con la paura è legata  all’ottundimento mentale e alla perdita del senso di controllo e le emozioni sottostanti sono tristezza, disgusto, imbarazzo e, ovviamente, paura.

Il fascio di nervi dorso-vagale è in grado di innescare la reazione di morte apparente che può essere potenzialmente dannoso oggi nell’uomo.

Difatti, quando il circuito dorso-vagale è attivo riscontriamo, nella persona, uno stato di prostrazione: muscoli flaccidi, sguardo perso nel vuoto, cuore bradicardico e movimento del collo all’indietro (il movimento della tartaruga, come a volersi nascondere). Il corpo è stanco e pesante e tende al movimento verso il basso; si verifica un rallentamento delle risposte muscolari e scheletriche con riduzione dell’apporto di ossigeno. Lo stato dorso-vagale si associa frequentemente a condizioni depressive. Quindi, se la condizione di pericolo persiste si attiva uno stato dorso-vagale, associato a pericoli estremi, in un continuum che va dalla sicurezza all’immobilizzazione.

Ad esempio, nelle esperienze traumatiche (nell’ambito della relazione di attaccamento) l’interazione sociale non è più fonte di sicurezza, cosa che può determinare uno stato dissociativo nella persona, la quale cerca, in questo modo, di distanziarsi da contenuti emotivi dolorosi, comportando mancanza di reciprocità nella relazione e dall’assenza di sintonizzazione. Ciò pone le premesse per un atteggiamento conservativo, osservabile nelle persone che hanno subito dei traumi.

La seconda branca di fibre è quella ventro-vagale di evoluzione più recente e che si ritrova nei mammiferi superiori, ha reso possibile l’attuazione di comportamenti di affiliazione e vicinanza, di collaborazione e aiuto reciproco che guida i muscoli del volto, della faringe, dei polmoni, del cuore e determina la nostra capacità di esprimere le emozioni con il volto, la voce, la prosodia e il respiro.

Quest’ultima branca è attiva solo in condizioni di sufficiente sicurezza ed è quella più legata ai comportamenti di attaccamento e di cooperazione tipici degli esseri umani.

La Teoria Polivagale di Porges prevede delle risposte suddivisibili 4 categorie di risposte organizzare gerarchicamente al grado di pericolo reale o percepito:

  • Al primo livello di risposta si può osservare quando c’è un’attenuazione del sistema di coinvolgimento sociale e, dunque, una riduzione dell’attività vagale ventrale, che si manifesta con un’espressione del volto piatta, bassa reattività e un’elevata sensibilità ai suoni;
  • Il secondo livello di risposta è caratterizzato invece da elevata reattività e mobilitazione direttamente correlate all’attività del sistema simpatico;
  • Il terzo livello è caratterizzato dall’alternanza tra sistema simpatico e dorsovagale e si manifesta con una vulnerabilità al collassamento e alla dissociazione. Si manifesta con episodi di ipotensione, assenze o restringimenti dello stato di coscienza, fibromialgie, problemi intestinali e comportamenti di ridotta mobilizzazione.
  • L’ultimo livello è quello della dissociazione vera e propria che si manifesta con il collassamento cronico (shut down) determinato dall’attivazione del sistema dorso-vagale, come risposta difensiva generalizzata a diverse situazioni di stress o di pericolo percepito. Questo ultimo cluster è molto frequente in persone vittime di abuso o di violenze e si tratta di una risposta estrema di difesa ad una minaccia potenzialmente letale.

Con la permanente attivazione del sistema dorso vagale viene a mancare in modo cronico l’equilibrio tra le diverse branche del sistema nervoso autonomo e nell’ambito della psicologia clinica possiamo ritrovare diverse come la depressione o altri disturbi legati al trauma.

Per la riabilitazione fisica, mentale e sociale del soggetto è possibile menzionare diverse procedure psicoterapiche come la Terapia Sensomotoria, l’EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing) e la CBT (Cognitive Behavioral Therapy) che permettono una rielaborazione del trauma e di rendere il soggetto consapevole della relazione che intercorre tra il corpo, le proprie convinzioni e le proprie emozioni e a notare come una propria auto-rappresentazione possa influenzare l’organizzazione fisica e come le parole e il contenuto da essa descritto nel qui ed ora della terapia, influenzino le sensazioni e i movimenti corporei e mettere in atto azioni fisiche che favoriscano l’autoefficacia.

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